Marco Nesci
La storia di Wissem Ben Abdel Latif è un pugno nello stomaco, un racconto agghiacciante che svela l'orrore in cui possono precipitare le vite umane quando incontrano l'ingranaggio disumano di un sistema intriso di indifferenza e pregiudizio. La sua morte, avvenuta il 28 novembre 2021 all'età di soli 26 anni, non è stato un tragico incidente, ma il culmine di un calvario imposto, un'agonia silenziosa consumatasi nell'indifferenza istituzionale. È la cruda dimostrazione di come certe derive ideologiche, che nel contesto italiano possono richiamare echi funesti di fascismo e suprematismo bianco, possano tradursi in pratiche concrete che annientano la dignità e spengono vite innocenti.
Wissem era un giovane sano, pieno di speranze, partito da Kebili, in Tunisia, con un sogno semplice e universale: raggiungere la Francia per lavorare onestamente e sostenere la sua famiglia. Un sogno infranto brutalmente contro il muro della "Fortezza Europa" e le sue politiche migratorie sempre più restrittive e disumanizzanti. Arrivato a Lampedusa, invece dell'accoglienza ha trovato la trafila dell'orrore dei nostri tempi: confino sulle navi quarantena, poi la detenzione nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma. Luoghi che troppe volte assomigliano più a lager che a centri di accoglienza o detenzione per chi non ha commesso alcun reato se non quello di cercare un futuro migliore.
Quattro anni di privazione della libertà e della dignità hanno segnato profondamente Wissem. Le condizioni disumane del Cpr lo hanno ridotto in uno stato di sofferenza tale da renderne necessario il ricovero ospedaliero. Ma l'ospedale, anziché un luogo di cura, si è trasformato nel palcoscenico finale del suo supplizio. Ricoverato prima all'ospedale "G.B. Grassi" di Ostia e poi trasferito al San Camillo di Roma, Wissem è stato sottoposto a contenzione fisica, legato mani e piedi a un letto, e sedato pesantemente per oltre cento ore consecutive. Più di quattro giorni di immobilità forzata, di annientamento farmacologico, durante i quali i suoi parametri vitali peggioravano inesorabilmente. Senza un mediatore culturale che potesse assisterlo, solo, legato, dimenticato in un corridoio.
È in questo quadro che l'ombra del suprematismo bianco si staglia, se interpretiamo la morte di Wissem come il risultato ultimo di un sistema che valuta le vite in modo diverso a seconda del colore della pelle, della provenienza, dello status sociale. Un sistema in cui la vita di un giovane uomo tunisino, un "altro" non conforme all'ideale di una presunta purezza nazionale o razziale, sembra avere meno valore, meno diritto alla cura, alla dignità, alla libertà. La facilità con cui è stato privato della sua libertà, la brutalità della contenzione prolungata che in altri contesti sarebbe considerata tortura, l'indifferenza verso il suo progressivo peggioramento clinico, tutto questo parla di un disprezzo per l'individuo che trova terreno fertile in ideologie che classificano e gerarchizzano gli esseri umani.
Mentre Wissem lottava tra la vita e la morte, legato a un letto, un giudice di pace a Siracusa stabiliva che non avrebbe mai dovuto essere rinchiuso, ordinando la sua immediata liberazione. Una decisione arrivata troppo tardi. Il suo cuore, stremato da un trattamento disumano e da anni di sofferenza imposta, ha smesso di battere.
"Nostro figlio era sano. Che cosa gli hanno fatto?", ripetono con strazio Henda e Kamal Latif, i genitori di Wissem. La loro domanda risuona potente e accusatoria. La verità, nuda e cruda, è che Wissem è morto con lo Stato addosso. Ucciso non da un singolo gesto, ma da un crescendo di azioni e omissioni, da un sistema che si è dimostrato forte con i deboli e debole con i forti. Un sistema che, nel suo trattamento dei migranti e nella gestione disumana dei CPR, rivela le sue crepe profonde, le sue zone d'ombra dove i diritti fondamentali e la dignità umana vengono calpestati in nome di una sicurezza e un controllo che assumono i contorni inquietanti di una selezione basata sull'origine.
La morte di Wissem Ben Abdel Latif è una macchia indelebile sulla coscienza del nostro paese, un monito severo sugli abissi di disumanità a cui può condurre un'interpretazione distorta e pericolosa dei concetti di nazione e identità, dove la vita di chi viene percepito come "diverso" perde valore. Ora sia fatta giustizia, che venga fatta piena luce su questa tragedia e che i responsabili rispondano delle proprie azioni, ma anche i politici attori del suprematismo. Ma soprattutto, è fondamentale che si apra una riflessione profonda e onesta sulla deriva disumana delle politiche migratorie e sulla necessità impellente di smantellare ogni forma di razzismo e discriminazione che, agendo nell'ombra, produce morte e disperazione. La memoria di Wissem merita verità, giustizia e un cambiamento radicale perché orrori simili non accadano mai più.

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