di Cristiana Di Cerbo
La recente proposta del Ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, di emendare alla camera il dl Cultura, rendendo il parere delle Soprintendenze in materia paesaggistica e urbanistica obbligatorio ma non vincolante, ha la medesima e pericolosa radice ideologico normativa della l. 86/2024 a firma del Ministro Calderoli (cd. autonomia differenziata).
Analogamente a quest’ultima, difatti, essa si pone in linea di continuità con i principi autonomistici delle regioni che innervano, in particolare, gli artt. 114, 116 e 117 del riformato Titolo V Cost. (1999 e 2001), segnandone tuttavia un esasperato e – si spera – immaginifico affondo, come vedremo meglio più avanti.
Difatti, demandare l’ultima parola sulla liceità di tale tipologia di interventi agli enti territoriali non statali (Comuni ecc.) invece che alla potestà esclusiva dello Stato e dei suoi organi periferici prescinde interamente dalla regolamentazione attuale in materia e costituisce a tutti gli effetti sia una concreta lesione dei diritti costituzionali del popolo italiano, sia un primo passo verso la legalizzazione delle disuguaglianze implicitamente contenuta nella nozione stessa di Repubblica a regioni con autonomia differenziata.
Quale la presunta base giuridica del pensiero leghista? L’art. 114 del Titolo V della Costituzione: vediamolo in breve per poi tornarci più avanti.
Nella versione ante 2001 esso recitava: la Repubblica si riparte in regioni, province e comuni, esplicitando, cioè, il concretarsi dell’unità nazionale nella Repubblica, poiché Repubblica e Stato coincidevano. Con l’intervento del 2001, invece, esso fu interamente snaturato: “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”. Lo Stato quindi ne è solo uno degli elementi costituitivi.
L’ambiguità derivata è stata così grande da aver spinto giuristi, assessori regionali e sindaci a sostenere che il soggetto indicato all’art. 9 Cost. (la Repubblica), al quale spetta la tutela del patrimonio culturale, è rappresentato in modo equivalente da tutti gli enti istituzionali menzionati nel novellato art. 114: Comune o Regione, in toto e in proprio, possono occuparsene in quanto investiti pienamente d’autorità dalla Repubblica.
Tuttavia, la normativa vigente nel nostro ordinamento segna una storia tutta diversa, che adesso andremo a ripercorrere.
Il riparto delle competenze in tema di beni culturali tra i diversi livelli di governo della Repubblica – Stato, Regioni ed Enti Locali – non è privo di complessità e fu oggetto di dibattito già in Assemblea Costituente, vivendo poi aggiornamenti frequenti e significativi sia ante sia post adozione del testo legislativo fondamentale. Nell’ottica di richiamare tutti i soggetti pubblici all’azione congiunta per la tutela e l’incremento dei valori culturali, il pur novellato Titolo V ha sancito la separazione tra tutela e valorizzazione del patrimonio (v. art. 117, c. 2), attribuendo la prima alla potestà esclusiva dello Stato e la seconda all’attività concorrente regionale e locale, secondo i principi di sussidiarietà verticale e di differenziazione. In altre parole, si sono riconosciute le sole conservazione e fruizione dei beni culturali come un compito degli enti locali in concorso con lo Stato (da cui azione concorrente), al fine di promuovere lo sviluppo della cultura all’interno dei territori amministrati secondo – attenzione! – i principi della cornice normativa statale.
Cosa significa in concreto quanto detto?
Che la tutela, di competenza statale, prevale sulle altre materie di potestà regionale e può essere esercitata dai singoli territori solo se investiti di delega da parte dello Stato (art. 117, comma 2).
Si è detto ‘delega’ e ricordiamolo, perché è una parola chiave nel ragionamento che stiamo facendo.
In quanto competenze, appunto, delegate e non cedute, lo Stato e i suoi organi periferici – le soprintendenze – conservano difatti la possibilità di esercitare potestà di indirizzo, vigilanza e persino di potere sostitutivo in caso di perdurante inerzia o inadempienza del soggetto delegato.
In questa medesima prospettiva procede pure il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 42/2004), che ammette interventi da parte delle Regioni previe forme di intesa con lo Stato per il coordinamento delle attività (art.5). Tale cooperazione può coinvolgere anche altri enti pubblici territoriali.
Tornando ora alla proposta del Governo, è piuttosto evidente quanto tale iniziativa abbia tentato di ledere – e lederà, se è vero che l’emendamento è stato ritirato per riproporlo più avanti con un ddl apposito – non solo il diritto del patrimonio culturale, ma anche e soprattutto il diritto al patrimonio culturale, assegnato e riconosciuto a ciascun cittadino italiano dalla carta costituzionale.
Ma ancora, estremizzando: attribuire ai Comuni la facoltà di ultima parola su questioni di questo tipo, sarebbe come chiedere, ad esempio, a un astronomo di assumere responsabilità definitive in dibattiti di natura ingegneristica. Come interpreteremmo la cosa? Non penseremmo forse a un’assunzione indebita di competenze? Ci fideremmo delle soluzioni individuate? Immagino di no.
E Salvini chi ha cercato di tutelare con questa proposta di emendamento?
Evidentemente non i cittadini, bensì gli abusi liberistici e privatistici che, per manifestarsi, necessitano della rimozione di ogni steccato, appunto di ogni vincolo.
Un ingegnere, ricordiamolo, non è né uno storico del paesaggio né uno storico dell’arte. E le figure che lavorano e tutelano il patrimonio culturale, difendendoci anche dallo stupro del territorio e delle sue ricchezze più o meno (dis)velate, ne impediscono l’asservimento alle logiche del capitale che legittimano le disuguaglianze all’interno del territorio nazionale.
Ma in che misura il paesaggio è ‘patrimonio culturale’?
Partendo dai lavori della Commissione Franceschini e dalla definizione di bene culturale come testimonianza materiale avente carattere di civiltà (1967), arriviamo ai giorni attuali e leggiamo cosa stabilito dalla cd. Convenzione di Faro del 2020:
«il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone considerano, a prescindere dal regime di proprietà dei beni [pubblico o privato] come un riflesso e un’espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione nel tempo fra persone e luoghi».
Vige quindi nel nostro ordinamento una nozione non analitica – bene culturale e bene paesaggistico – bensì unitaria, che attribuisce un carattere storico e identitario all’insieme che i due soggetti compongono. Ecco allora che ci ritornano alla memoria alcune parole di Salvatore Settis che, a proposito dell’azione sinergica sempre svolta tanto dalla natura quanto dalla comunità sociale nella composizione di quello che definisce codice dello spazio, ricorda come, ad esempio, il viaggiatore settecentesco percepisse la nostra ‘italianità’ non tanto nella lingua comune, quanto proprio nella felice congiuntura di paesaggio, cultura e tradizioni:
«rovine romane, città turrite, greggi nella campagna romana, colline coronate di cipressi, cattedrali urbane (…), il clima e il cibo già allora vennero visti come tessere di un solo, armonioso mosaico, che era lo stesso di Mantegna e di Raffaello, (…), di Bernini e di Borromini, delle antiche università e delle biblioteche ricche di tesori».
In altre parole, le colline senesi siamo noi, tutti noi, esattamente come lo sono le torri circolari del castello duecentesco di Maddaloni o i molteplici belvedere mozzafiato di cui la nostra penisola è disseminata.
Ritorniamo allora al già citato art. 9 della carta costituzionale, per leggerlo lentamente:
La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione.
Il testo fondamentale del nostro ordinamento pare offrirci un importante appiglio non solo contro l’idea salviniana, ma soprattutto per acquisire un contenuto, per orientare la riflessione e, infine, per strutturare l’azione.
Vi si fa riferimento, difatti, a un secondo concetto, contrapposto a Repubblica e tutt’altro che astratto: Nazione, poco citato nella carta costituzionale.
Ancora una volta le riflessioni di Salvatore Settis si rivelano illuminanti:
«il riferimento alla Nazione comporta che la tutela debba essere identicamente esercitata in tutta Italia e dunque non può essere segmentata e assegnata ‘in proprio’ alle Regioni né (a maggior ragione) a Province e a Comuni. (…) nella Costituzione, «Nazione» è sempre l’Italia nel suo insieme, un concetto che coincide con quello di «territorio nazionale» degli articoli 16 (libertà di circolazione dei cittadini in qualsiasi parte del territorio nazionale), 117m (diritti civili e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale) e 120 (diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale) e corrisponde a pieno all’«unità nazionale» che il Capo dello Stato rappresenta (art. 87 Cost.), nonché alla «Repubblica una e indivisibile» di cui all’art. 5. È dunque evidente la fortissima carica etico politica del concetto di Nazione in tutte le sue occorrenze nel testo della Costituzione, e l’istanza di democrazia e di uguaglianza che vi è sottesa. Eguaglianza fra i cittadini, che devono avere in tutta Italia gli stessi diritti e le stesse condizioni di vita; eguaglianza, dunque, dei principi che regolano la qualità e lo spazio della vita dei cittadini, come le norme a tutela della salute (art. 32) e del paesaggio (art. 9)». Ecco dunque che si comprende meglio la base politica della legge 86/2024 insieme all’abortito emendamento salviniano: giocare con l’art. 114 sulla presunta contrapposizione Repubblica-Nazione per promuovere la dissoluzione dell’unità nazionale, la prima in modo esplicito, il secondo in modo decisamente più subdolo. A questo disegno politico perverso, autonomista perché non si può ancora dire ‘federalista’ – ricordiamoci, tuttavia, che uno dei pilastri dell’autonomia differenziata è proprio il federalismo fiscale – e del tutto opposto non solo a quanto stabilito dai Padri costituenti ma, soprattutto, a quello di cui necessitiamo come Popolo è necessario opporsi. Opporsi in quanto studente, lavoratore e pensionato; opporsi in quanto uomo, donna e bambino di questo paese; opporsi, appunto, in quanto Nazione a difesa di se stessa e con le armi che ci sono proprie: la coscienza, la consapevolezza, la mobilitazione e, infine, il voto.

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