Redazionale
A fari spenti e con la benevola astensione del PD (che non si smentisce mai quando si tratta di mettere in crisi i diritti dei lavoratori) è stata approvata alla Camera, e passa ora al Senato, la proposta del governo sulla legge delega alla partecipazione dei lavoratori al capitale e agli utili delle imprese, promossa con entusiasmo dalla CISL, che solleva interrogativi profondi, soprattutto se analizzata attraverso la lente, già critica della CGIL e nel contesto aspro del capitalismo finanziario contemporaneo. Se l'intento dichiarato è nobile – coinvolgere maggiormente i lavoratori nella vita aziendale – i rischi, in un sistema economico dominato dalla speculazione, appaiono superare di gran lunga i potenziali benefici.
La CGIL, storicamente attenta alla concretezza dei diritti e alla difesa del potere contrattuale collettivo, ha espresso, e non a torto, una cautela marcata verso questa riforma. Il timore principale risiede nella natura vaga e delegante della legge: un "assegno in bianco" al governo, privo di garanzie sostanziali per i lavoratori. In un quadro normativo così indefinito, la partecipazione rischia di trasformarsi in un mero orpello, una facciata partecipativa dietro cui si celano dinamiche di potere immutate. La CGIL preferirebbe, giustamente, un rafforzamento della contrattazione collettiva e diritti inderogabili, strumenti ben più solidi per tutelare i lavoratori rispetto a promesse partecipative di dubbia efficacia.
Ma è il contesto economico globale a rendere le critiche della CGIL ancor più stringenti. In un’epoca dominata dalla finanza speculativa, dove i capitali si muovono rapidamente alla ricerca del massimo rendimento nel breve termine, spesso a scapito della produzione reale e stabile, l’idea di una partecipazione “attiva” dei lavoratori alle sorti dell’impresa si carica di ambiguità inquietanti. La volatilità dei mercati, le crisi finanziarie improvvise, le delocalizzazioni motivate da logiche puramente speculative: questi fattori incrementano esponenzialmente i rischi per i lavoratori coinvolti nella partecipazione. In caso di profitti, la quota destinata ai lavoratori potrebbe essere esigua e condizionata; in caso di perdite, invece, il rischio di un impatto negativo sui salari, sull’occupazione, e sulla stabilità economica dei lavoratori stessi si materializza in tutta la sua gravità.
La partecipazione, in questo scenario, rischia di configurarsi come un’arma a doppio taglio per i lavoratori. Illusi da una parvenza di coinvolgimento e di “azionariato popolare”, si troverebbero in realtà più esposti alle turbolenze di un sistema finanziario impazzito, senza un reale potere di controllo sulle dinamiche aziendali e sui flussi di capitale che le determinano. La vera partecipazione, quella che garantisce un peso decisionale effettivo e una ridistribuzione equa della ricchezza, richiede ben altri strumenti e un contesto economico profondamente diverso. Invece, in questa legge delega, si intravede il pericolo di una partecipazione illusoria, più vicina a un’operazione di marketing sociale che a una vera conquista di democrazia economica per i lavoratori. Prima di azzardare passi incerti in un terreno minato come quello della partecipazione in un sistema finanziarizzato, sarebbe forse più saggio consolidare le tutele esistenti e rafforzare gli strumenti di difesa collettiva dei lavoratori.